giovedì 11 luglio 2013

Questa è una stupida lettera d'amore.

Ciao mia Affezionata86xx.
Questa è una mia lettera d'amore per te e volevo scriverla proprio oggi, nonostante questa spalla mi stia dando ancora fastidio e nonostante ultimamente io sia un po' a corto di parole.
Volevo scrivertela oggi perché è il tuo compleanno, e volevo scriverla pubblicamente solo per il gusto di metterti un po' in imbarazzo. Lo sai che sono una brutta persona.
In realtà credo di averla voluta scrivere molte volte, ma non trovavo mai una scusa per farlo.
Cioè di scuse ne avevo a decine, ma nessuna di queste mi bastava.
Allora lo faccio oggi perché ricorre in nostro "anniversario". Perché sono passati nove anni da quando ci incontrammo appena maggiorenni a lavorare in un festival qui a Genova. Perché in questi nove anni il tuo numero è rimasto salvato nel mio telefono portando come suffisso le prime tre lettere del nome di quel festival e nonostante io abbia cambiato tre volte numero di telefono (e una decina di sim diverse) ogni volta ho salvato il tuo numero in quel modo.

Oggi mi sembrava il giorno giusto, perché ho scritto e cancellato parecchie volte un'altra lettera che in realtà ha a che fare con la fine di un amore anche se, alla fine, credo di non dover usare quelle parole, preferisco usare queste.

Ho fatto un lunghissimo cappello temporeggiando e senza arrivare al dunque. È come se avessi camminato in tondo per la stanza per tutte le prime quindici righe.
Arrivo al dunque.

Volevo dirti che ti voglio bene. Anche se te l'ho detto molte volte. Però oggi volevo dirtelo in modo un po' più eclatante (come se un post del blog potesse esserlo).
E poi ringraziarti perché in queste settimane ci sei stata e sei stata una presenza bellissima e preziosa. Perché senza la tua pazienza e la tua solidarietà quando mi sono fatta male avrei fatto molta più fatica a fare molte cose.
Perché in tutti questi anni senza la tua leggerezza sarei diventata di piombo e mi sarei ritrovata con un cuore a forma di proiettile e invece - anche se faccio finta di non averlo - è rimasto della forma e del materiale giusto.

Volevo ringraziarti delle nostre sere a Nervi a fare le sedicenni sullo scoglio più nascosto possibile.
Delle volte in cui mi hai trascinata alle odiose feste raggae e mi hai riportata illesa a casa mentre brontolavo in motorino e mi addormentavo sulla via del ritorno dal Monte Fasce.
Di esserti accollata quasi ogni trasloco che ho fatto.
Di avermi lasciato cambiare senza mai rinfacciarmi com'ero prima.
Di aver scavalcato insieme il cancello per quel concerto e di esserti nascosta con me mentre ci inseguivano inferociti.
Di aver sopportato buona parte delle mie lune storte.
Di non esserti persa anche quando la tua vita ti portava a sederti in riva a un altro mare.
Di leggere ogni volta le pagine di questo blog.
Di aver studiato con me - e ben più di me -  quando abbiamo dato la maturità insieme.
Di aver condiviso decine di volte le mie parole, perfino nei testi che hai preparato per i tuoi esami all'università.
Di avermi perdonato se sono riuscita a farmi male 5 giorni prima della tua laurea (e di non esser riuscita a finire di correggere il tuo riassunto).
Volevo ringraziarti per le foto stupide che mi strappano un sorriso quando sono triste.
Delle tue faccette.





 
E poi volevo ringraziarti esser stata la prima persona che ho fotografato (quando ancora non sapevo come si tenesse in mano una macchina fotografica), di essermi venuta a prendere sui nostri scogli con delle birrette decine di volte, di portarmi al mare ogni estate, delle nostre giornate a Pisa, di perdonarmi se non ho più molti racconti ma solo aneddoti, per avermi portato la pizza e una bottiglia di vino il giorno del mio compleanno e di troppe altre cose che mi ci vorrebbe un libro per metterle tutte insieme.

Insomma è una stupida lettera d'amore, per dirti che averti come amica migliora tante delle mie giornate e che ti voglio bene. E sì, in realtà era il mio modo pomposo di augurarti buon compleanno, Giulia.


mercoledì 22 maggio 2013

Non eravamo pronti.

Oggi si è spento Don Andrea Gallo.

È una fucilata al cuore per tanti e tante di noi. Lo è per tutte le persone che in questa città l'hanno incontrato decine, centinaia di volte. Per chi l'ha ascoltato. Per chi l'ha abbracciato.
Lo è per tutti quei miei amici e quelle mie amiche che ho visto entrare con gli occhi spenti nella sua comunità, senza nessuna speranza in tasca e poi uscirne con una vita nuova. Con il coraggio di andare avanti.

Sono un'atea convinta. Non ho bisogno di una fede o di un dio qualsiasi per trovare la forza dentro di me ogni giorno. Il coraggio lo trovo nelle cose, nei miei amici, nella mia famiglia di nascita, in tutte le mie famiglie addottive.

È da quando ho 7 anni che mi dico che Dio in realtà non esiste. In nessuna forma. Esistono gli uomini, le donne e un mondo che è molto lontano dall'essere uno dei migliori mondi possibili.
Esiste un mondo con regole e preconcetti che non condivido, con meccanismi malati, con incubi nascosti in ogni angolo di strada.
Esiste questo mondo.
Ed esistono nello stesso momento persone che invece creano delle isole felici.
Persone che dedicano la loro vita a creare dei punti saldi nelle comunità e che il marcio lo combattono con coerenza ogni giorno.

Don Andrea Gallo era una di queste - troppo rare - persone. Vestiva l'abito di un prete e aveva un animo anarchico.
Vestiva l'abito di un prete e non ha mai escluso nessuno, non ha mai allontanato da sé gli atei, gli anarchici, gli scappati di casa, gli ultimi della lista e i primi guerrieri con i paraocchi.

Se la "religione" è un veleno lo è soprattutto per i paraocchi che mette alle persone, per le vie strette in cui le instrada, così come lo sono tutte le cose che richiedono "fede", come il dover essere duri e puri e troppo anarchici per amare un prete. 

Non ho avuto bisogno del suo dio per uscire dalla mia di melma, non ho visto uscire i miei amici dalla sua comunità con occhi nuovi perché avevano trovato la fede. Avevano trovato una nuova forza di vivere. Che lui fosse un vero cristiano come dicono alcuni e che fosse un buon prete come dicono altri, non mi ha mai impedito di amarlo, di averne rispetto e stima.
E ora non mi impedisce di piangerlo.

Non piango un prete.
Piango un uomo, un compagno, una persona che a me tante volte ha dato speranza, non fede.

Che la terra ti sia lieve. Che le tue parole riecheggino ancora a lungo come un colpo di gong in noi. Che il mondo ci perdoni perché non siamo ancora pronti a fare a meno di uomini come te.




giovedì 11 aprile 2013

Badroom*

Foto orribile fatta con il cellulare.

C'è un cassetto. Uno solo su sei (e uno anche piccolo a dire il vero) che contiene le mie magliette non nere. Poi ci sono tre cassetti dedicati alle magliette nere: quello delle t-shirt da combattimento, quello delle magliette di rappresentanza, quello delle magliette che vanno dalle mezze maniche fino alle maniche lunghe.
I calzini, rigorosamente in ordine di lunghezza.
La biancheria, divisa per colori, gradazioni, ordine. Tre quarti del cassetto è nero. Il resto una cupa accozzaglia di colori scuri.

I libri. In ordine di concetto, di editore, di autore, di idea. Quelli di cui ho più bisogno a portata di mano. Perché possono salvarmi una notte insonne o solo togliermi un dubbio prima di una lezione.

I fogli ovunque, scarabocchi di idee di storie, segni a caso buttati al telefono, appunti di viaggio, frasi buttate al vento che da sole non significano niente.

Le valigie. Di tutti i formati e le misure. Di tutte le capienze possibili per ogni tipo di viaggio.
Una dentro l'altra nell'angolo tra il cassettone e il comodino.

Le scatole dei cavi del computer.
Le scatole dei cavi elettrici.
Le scatole del materiale fotografico.
La scatola di latta sul comodino accanto al letto.

Tutte le cose che riguardano Il paese delle Meraviglie.
I barattoli di china.
I pastelli colorati.
Il barattolo che contiene i pantoni in tutte le scale di grigio possibile.
Le matite per disegnare, e gomme, cancellini, temperini, penne e pennarelli.

I trucchi, le medicine, le analisi mediche, le ricette di quelle analisi che non hai mai fatto perché non le vuoi fare.

Le scarpe.

Ho svuotato tutto. E l'ho rimesso in ordine.
Ho tolto tutto da dove stava, l'ho pulito, coccolato e rimesso a posto.
Ho svuotato i cassetti, ho preso i vestiti uno a uno e li ho piegati di nuovo.
Ho tolto i libri sbagliati dalle mensole, ho rimesso a posto quelli che non erano dove dovevano stare.

Ho preso tutti i biglietti che mi erano sfuggiti alla prima "perquisizione" della mia stanza mesi fa. Tutte le cose che avevi nascosto in giro e che ho ritrovato solo adesso. Le ho prese e messe a posto, in quella scatola di latta che sta accanto al letto.

Ora spero che l'ispirazione mi torni.
Che io smetta di pensare ai tuoi occhiali sporchi di colore.
Alle braccia sporche di colore.
Al colore rimasto impigliato dietro le orecchie.
A tutte le storie che mi hai rubato e a quelle che mi sono marcite dentro in questi mesi.

Per me, ora, la primavera può finalmente arrivare.
Le storie possono tornare da me.
Il momento di crisi... finire.
(E io posso smettere di sforare le deadline perché ho la testa altrove).

*ovviamente vuole essere un gioco di parole, non un refuso. 

giovedì 28 marzo 2013

Del dolore, della distorsione e della detrazione.

Avevo 11 anni quando per la prima volta la morte mi diede uno schiaffo in faccia.
Avevo 11 anni e avevo appena perso il mio amico di infanzia, schiacciato da un cancello.
Fu la prima volta che mi resi conto che la morte non era riservata solo ai vecchi e ai grandi.
Si era presa un mio amico, se l'era portato via in modo definitivo.
All'epoca sognavo ancora di fare la scrittrice da grande, sognavo di giocare a calcio meglio dei miei amici e meglio di quell'amico mio lì, con il quale il rapporto era iniziato all'età di 7 anni picchiandoci come due scaricatori di porto sui colli.
Ero una testa di cazzo di quelle con la coccarda e il numeretto da gara già quando stavo sotto il metro di altezza (non che ora io sia poi così alta).

Lo scoprii per caso, cercando la rubrica in casa per chiamarlo per gli auguri di compleanno. Lo scoprii dalla faccia di mia madre, che mi fece sedere sul letto e mi disse "Diego ha avuto un incidente".
Al primo colpo pensai che si fosse rotto un braccio, una gamba. Non capivo. Non realizzavo.

L'articolo di giornale che uscì il giorno dopo l'ho conservato per molti anni.
La foto di Patrizia, la madre di Diego che piange al suo funerale potrei disegnarla senza averla davanti.

Avevo 11 anni la prima volta che ho realizzato che non esiste dolore peggiore per una madre che seppellire i propri figli.
Avevo 11 anni la prima volta che si è rotta l'illusione in me, sentivo quella perdita come un'ingiustizia feroce, come un errore nel naturale ordine delle cose. Nonostante quello di Diego non fosse altro che uno stupido maledetto incidente dovuto alla noncuranza dei grandi.
Ed ero bambina. Avevo l'età che ha mia sorella adesso.
E spero con tutto il cuore che a lei questo morso della vita arrivi il più tardi possibile.

Recentemente mi hanno detto che dovrei avere molto più pelo sullo stomaco. Non riferito a queste questioni ma ad altre.
Ne ho parecchio di pelo sullo stomaco. Ho la pelliccia di un orso sullo stomaco. Non è la pancia a essere colpita, è quella cazzo di rotula che mi porto al posto del cuore.

Ogni volta che sento di una madre che seppellisce i figli i mi ricordo di quella storia. Mi ricordo della foto della madre di Diego il giorno del suo funerale. Mi ricordo dei suoi fratelli.

Immagine tratta dalla copertina del libro ZONA DEL SILENZIO di Checchino Antonini e Alessio Spataro.

Nel settembre del 2005, alla veneranda età di 20 anni, collaboravo con la segreteria legale del GLF ai processi contro le Forze dell'Ordine per i fatti del g8. Ero parte di un collettivo (che esiste tutt'ora) chiamato Supporto Legale, un gruppo di persone che a costo di incubi costanti infilava le braccia nella merda delle storie per sbrogliare la matassa. E che se non credeva del tutto nel concetto di Verità e Giustizia nelle aule di Tribunale, credeva fermamente nel fatto che la Memoria è un ingranaggio collettivo.
La storia della morte di Federico Aldrovandi ci arrivò subito, ci arrivò con una richiesta della madre di non far passare sotto silenzio quella storia che fin da subito risultava agghiacciante.

In Italia abbiamo qualche problema con i concetti di democrazia e di giustizia. Qualche problema è un eufemismo. Direi che abbiamo un problema grave con le Forze dell'Ordine, con i valori democratici, con il rispetto della Costituzione da parte di politici e da parte delle stesse Forze dell'Ordine.
Siamo il paese dove i fatti (e i processi ad essi connessi) della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto hanno mostrato quanto i comportamenti feroci, illeciti e contrari a ogni principio umano e legale siano diffusi e accettati. Dove mentire per spirito di corpo è accettato, perché vanno difese le azioni delle Forze dell'Ordine.
È una cosa che tutti, dai politici ai semplici cittadini che hanno voglia di indignarsi nei tempi dispari continuano a ignorare. O a far finta di farlo.
In questo paese la ferocia delle alte cariche e la vergogna di chi detiene il potere non è riferita al fatto che ammazzare di botte un ragazzino di 18 anni, sparare dei colpi in aria in autostrada, stuprare le detenute, o abusare del proprio potere sia una cosa vergognosa. Ci si inferocisce e si alzano i toni se si viene perseguiti per questo.
Perché la nostra giustizia ha EVIDENTEMENTE due pesi e due misure.
Non prendiamoci in giro.

Quello che è accaduto ieri a Ferrara è uno schiaffo alla dignità di una madre che ha perso un figlio nel modo peggiore che le potesse capitare.
A tutte le madri che in questo paese (non solo quelle dei casi eclatanti o che hanno avuto il coraggio di mettere in piazza il loro dolore) piangono per aver seppellito i propri figli.
È un cancrena che dilaga. Una malattia del nostro paese.
La putrefazione del bene sociale, dell'equilibrio.
È il potere della distorsione dei fatti, quella moda orrenda che abbiamo di stravolgere continuamente le storie, come quando si parla di fantomatici sassi che deviano proiettili o di malori attivi.

Siamo un paese dove chi rompe una vetrina paga con dieci anni di carcere, dove la frase ho solo eseguito degli ordini continua ad essere una buona giustificazione per gli atti immondi compiuti da chi indossa una divisa.
Sarò strana io, ma come diceva la nonna di una mia carissima amica, non riesco a fidarmi di chi - per lavoro - dorme con una pistola accanto al cuscino.
Il mio divario culturale ed etico con queste tipologie di persone è così ampio da scavare un abisso.

Il COISP non è nuovo a queste iniziative orrende, ogni anno il 20 luglio ha il coraggio chiedere il permesso di scendere in piazza a Genova, di indire un Sit-In in solidarietà a coloro che sono i primi fautori di quello che Amnesty ha definito la più grave sospensione dei diritti umani in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ieri a Ferrara ha avuto addirittura il coraggio di allontanare in malo modo il sindaco della città che era sceso a chiedere di spostarsi.
Ha indetto un sit-in in solidarietà di quattro assassini che, nonostante io trovi che la galera non vada bene nemmeno per i secondini, non sconteranno davvero la pena che la "società" ha chiesto loro di pagare.

A quanto pare la verità costa troppo cara.
A quanto pare in questo paese funziona così.
Funziona che una madre, a otto anni dall'omicidio del figlio, debba ancora scendere in piazza portando con sé la foto di un ragazzo dilaniato dalle percosse. In Italia funziona che una madre, dopo che ha seppellito suo figlio debba vedersi insultare e oltraggiare continuamente dagli autori di un reato infame.
Come se non bastasse quel carico di dolore che si porta appresso. Come se non bastasse la distorsione dei fatti smontata da più e più sentenze, come se non bastasse la detrazione costante a cui viene sottoposta da anni.

Non sono indignata per quel che è accaduto ieri a Ferrara.
Sono inferocita.

mercoledì 23 gennaio 2013

Il Cavallo di Troia


Ottobre 2012. I primi dieci giorni.



Questa foto è un po' banale.
Cos'è se non una linea di orizzonte dritta, un peschereccio con la scia del suo passaggio sull'acqua e di gabbiani in cielo che lo seguono? Non è niente. Se non un bel ricordo. Perché le cose belle del mio 2012 si sono rivelate un Cavallo di Troia. Nascondevano dentro di sé un po' di mostri banali, come questa foto. Una foto che non racconta una storia. Che non racconta niente. Solo un peschereccio con la sua scia in acqua e una scia di gabbiani in cielo che lo segue.
E due persone sulla spiaggia, dietro l'obbiettivo, che avevano fatto il bagno, si erano incontrate e perse tra le onde, e dei fiori che non si sapeva bene dove finissero.
È una storia.

Volevo un ricordo bello, un piccolo tesoro preso dalla scatola disordinata di tutte le cose che non mi riesce facilissimo dimenticare.

Nell'altra foto ci sei tu. In controluce. Se non sapessi che sei tu non ti riconoscerei dalla tua ombra. Forse non ti riconosceresti nemmeno tu.
Guardo questa foto che non ho voglia di cancellare.
Ha una storia banale.
Non dice niente, a parte di un peschereccio che sta tornando verso il porto e lascia la scia del suo passaggio dietro di sé, una linea più scura in acqua, e una scia di gabbiani che lo inseguono in cielo.
Dice solo che quello era un bel momento. Un bel ricordo. Pieno di acqua fredda, di risate per non congelarsi e che in realtà era un Cavallo di Troia.

Cassandra era rossa, e nessuno voleva crederle, ma sapeva la verità.
Cassandra era rossa e teneva la mano sul fuoco più di tutti gli altri, ma nessuno voleva crederle.
Cassandra era rossa e a volte non voleva leggere il futuro, perché preferiva non crederci.
Troia ora brucia.
Ulisse si è perso per mare e non riesce a tornare a casa.
Achille è cieco per volere della Dea.
Ettore è stato dato in pasto a cani ed augelli.
E noi non abbiamo mai capito dove finiscano i fiori.
Forse sono ancora incompleti, non finiti.

E c'è questa storia dietro a una foto banale.
Che non racconta niente.
Che non ha ancora sull'orizzonte le linee infuocate dell'incendio di Troia.
Ha solo un peschereccio, che torna verso il porto alle prime ore della sera e lascia dietro di sé una scia più scura sull'acqua e una scia di gabbiani che lo inseguono in cielo.

E noi, con una birra piantata nella sabbia, come se fosse agosto, che ridiamo di quel mare così azzurro in una sera d'ottobre.

mercoledì 16 gennaio 2013

Coccodrilli

Non avevo capito.
Vedevo questo video pubblicato e non capivo.
Forse solo perché non volevo capire.
Perché a volte vorrei essere più stupida. Tanto più stupida.
Poi alla fine ho acceso i collegamenti sinaptici e ho capito.
Perché era chiaro come il sole.
Ci ha lasciati Paolo Morales.
Per me è stato un MAESTRO, di quelli che meritano questa dicitura tutta scritta maiuscola.
Perché nelle lezioni a cui ho assistito quando frequentavo la Scuola Romana dei Fumetti mi ha dato tantissimo.
Perché quando faccio lezione lo cito spessisimo, come cito l'altro mio sensei.
Perché di persone così ne hanno fatte poche.
E mi mancherà. Perché non l'ho mai reincontrato per ringraziarlo, per non ho mai avuto la confidenza che mi sarebbe piaciuto avere, quella di alzare il telefono dopo una lezione che ho preparato pensando alle cose che mi ha insegnato e dirgli grazie.
GRAZIE.
Ecco.
Io i coccodrilli non li so scrivere. So solo che mi mancherà.

martedì 1 gennaio 2013

Cimento.

Io lo so che quell'acqua e fredda.
Lo vedi dal colore che è gelida.
È grigia come il ghiaccio, e sembra solida.
Soffia Scirocco leggero, forse è per questo che in tre siamo abbastanza pazzi da provarci.
Cerchiamo un punto sulla spiaggia, uno dove non si abbia troppo pubblico, dove ci sentiamo più riparati dagli occhi della della gente e da quel vento che dovrebbe essere caldo, ma non lo è davvero.
Ci sono otto gradi, forse dieci.
L'acqua anche è tra i dieci e gli otto gradi.
Ci guardiamo, ridiamo, ci chiediamo com'è che abbiamo avuto questa idea da pazzi.
Ah sì, l'ho avuta io.
Perché l'ho avuta?
Perché ieri c'era il sole.
Perché sto andando a nuotare tantissimo ultimamente.
No, forse l'ho avuta per quella canzone dei Bosio che ha scritto il mio coinquilino: Cimento.

Non è vero niente di tutto questo.
Ieri mi sono resa conto che lo volevo fare da tempo, che era dal 21 ottobre, quando ho fatto l'ultima nuotata in mare che volevo farlo.
E volevo farlo oggi.
Perché è importante festeggiare i riti di passaggio. Dicono che sia importante farlo per dirsi che si va avanti.
Perché ieri mi si è rotto l'orologio da polso, durante la notte, e ho pensato che forse ho perso troppo tempo a non affrontare certe paure.
Perché questi due amici a cui ho chiesto di tenermi l'asciugamano, stamattina mi hanno scritto che l'avrebbero fatto con me.
Che mi avrebbero seguito in acqua.
Che l'avrebbero fatto anche loro il cimento.

Ci spogliamo, ci facciamo un autoscatto.

Sori (GE) 01/01/2013

Vogliamo le prove che lo stiamo facendo davvero.
Fa freddo appena togliamo i vestiti. E io quel mare lo vedo grigio e quasi solido. Come se fosse di ghiaccio.
Stefano mi prende per mano.
Lo fa anche Manuela.
Loro sono più coraggiosi.
Mi danno della pazza, ma io so che loro lo sono più di me, perché non solo mi hanno sostenuto in questa idea folle, ma mi accompagnano.
E loro riescono a entrare in acqua al primo colpo.
E riescono a farlo davvero.
Io arrivo a bagnarmi le ginocchia e torno indietro.
Terrorizzata da quell'acqua di pietra.
Li guardo e li stimo tantissimo.

Sori (GE) 01/01/2013

Li invidio anche. Li invidio davvero.
Perché io vorrei andare a mollarci alcuni macigni che mi porto nella pancia in quell'acqua gelida.
Perché mi sono svegliata dicendomi che tutto quello che mi chiedevo per onorare questo rito di passaggio era bagnarmi in quel mare.
Quel mare che mi devo riprendere perché a un certo punto l'ho regalato a qualcuno che mi ha strappato a brandelli.
E io devo tornarci, in un modo nuovo, con qualcosa che non ho mai fatto.
Perché lo amo, e lo temo. Come sempre.
Lo amo e mi chiama anche se è grigio, duro, e freddo.
Cristo se è freddo.
Porgo gli asciugamani a Manu e Ste.
Li abbraccio.
Mi tremano le gambe.
Ho i piedi rossi per il freddo, io.
Loro non sembrano toccati dalla faccenda.
Mi tolgo l'accappatoio, scoppio a ridere come una psicopatica e vado.
È una questione mentale.
Entro in acqua velocissima, scendo fino ad averla sulle spalle, mi volto verso la riva alzando le braccia e grido loro «Fino alle spalle vale? Fino a quando devo contare?».
Conto fino a un ventuno indicativo, ma forse era undici, o trentasette. Non me ne frega un cazzo.
L'acqua gelida mi stringe la gola.
Dopo la notte di lavoro passata ho già un principio di bronchite.
Forse non è un'idea geniale restare in acqua.
Corro fuori, ridendo, l'adrenalina mi fa tremare le gambe.

Sori (GE) 01/01/2013

Manuela mi fa questa foto bellissima. Io sono felice. Ci abbracciamo tutti e tre tremando dal freddo.
Una frotta di ragazzini viene a sedersi dietro di noi, guardandoci come se fossimo dei matti.
Forse lo siamo.
Un po'.
Ma siamo lucidamente folli in quel momento.
E felici.
Ci asciughiamo. Ci vestiamo lentamente.
Beviamo il tè caldo che ha portato Manu, correggendolo con della cachaca. Riprendiamo la circolazione, io ho più freddo di loro.
In quel momento arriva un messaggio di Francesco, che mi dice che oggi è nata la sua bambina, che aveva fretta di venire al mondo.
È nata Amelia.

Il mio 2013 inizia così.
Con un bagno in un'acqua gelata, con una paura messa da parte, con una bellissima notizia nonostante soffi Scirocco, con la voglia di riprovarci di nuovo e di dirmi che posso resistere di più, con una bambina che viene al mondo e un papà che mi fa una telefonata emozionatissimo.
Il nostro primo cimento.
Anche se io non ho dato il massimo, sono felice.
Perché qualche macigno l'ho lasciato sul fondo in quel momento.