martedì 26 luglio 2011

Un approdo



Qualche giorno fa ero a spasso per Villa Bombrini, con un amico, dopo un concerto. Parlavamo di cose. Di quelle di cui parli quando non vuoi parlare veramente ma solo stare insieme.
Succede.
Parlavamo di cose.
Parlavamo di fumetti.
Parlavamo del significato delle parole.

Ed effettivamente, a volte, a seconda di dove vivi, alle parole dai un significato diverso.
Parlavamo di come è stato tradotto in italiano il titolo di The Arrival, il libro di Shaun Tan.
In italiano si chiama L'Approdo.

E lui, che non ha mai vissuto in una città di mare (ma prima o poi dovrà farlo per sua stessa ammissione) non apprezzava questa traduzione.
Quello che non sono riuscita a dirgli in quel momento, complici le birre e la voglia di rivederlo un attimo dopo un sacco di tempo, è che per me invece l'immagine dell'approdo è la migliore del mondo.
Per me che ho mare nelle vene per almeno cinque secoli della mia famiglia, che ho lasciato per non tornare la nebbia della pianura, che ho sbattuto la faccia con la crudeltà di una città di porto.

Un approdo è qualcosa di più di un arrivo.
Un approdo è qualcosa di inspiegabile, di intraducibile se non riesci a trovare i mille significati nascosti nel sotto-testo del suo significato.

E Genova lo è; è un approdo per molte e molti di noi.
Per quelle amiche e quegli amici bellissimi che mi hanno invaso la casa, le strade e la vita (di nuovo) per questo decennale del g8.
Che mi hanno detto che non era davvero un lungo funerale e l'hanno fatto con i loro sorrisi, con i loro figli, con le loro vite che sono andate avanti e si sono legate a questa terra, a questi luoghi che li hanno fatti a pezzi.




E io ho rubato loro l'anima, per chiuderla nelle foto che possano raccontare quanto ci voglio bene, e quando sono felice che la mia casa per loro sia stata un approdo, qualsiasi essa sia stata in tutti questi anni, in questa città.

Ed è questo il fatto. Dare un approdo. Una casa che non è solo un tetto, un letto, un divano, un angolo dove rifugiarsi, è quell'approdo sicuro dove tornare, dove sai che hai porte aperte e braccia pronte a stringerti.
Dove sai che il mare è qualcosa che calmerà anche la tua anima.
Che troverai qualcosa in grado di lenire il dolore del tuo cuore anoressico.
Qualcosa che ti dice che va tutto bene.
Anche se è difficile.
Anche se fa male.
Anche se per anni hai navigato alla deriva cercando questo approdo che non c'è più.
E lo sai, lo sai che per quanto il cinismo che si incastra nelle nostre anime, e nei nostri vicoli, per quanto facciamo finta di niente, noi che viviamo nei porti aspettiamo sempre.
Anche se non guardiamo il mare ogni cinque minuti.
Anche se vivere ci stanca da morire.
Anche se non abbiamo sempre gli occhi al cielo, ma inchiodati a terra nelle strade che dobbiamo percorrere di corsa.

Aspettiamo, e offriamo un posto dove tornare.
Come solo noi che viviamo in questo grande porto siamo in grado di fare.

martedì 19 luglio 2011

tremilaseicentocinquantaduegiorni (più o meno)



Il conto è facile, ci si toglie uno zero se si divide, lo si aggiunge se si moltiplica. E si aggiungono o tolgono due giorni, quei 29 febbraio che è brutto non mettere nel conto. 


Dieci anni. 


E il suono degli elicotteri sopra le nostre teste ha ancora un eco profondo e il suono delle sirene ancora ci rimbomba nelle orecchie. E brucia, brucia ancora.


Mi sembra passato un giorno, invece non è così.

Però io ricordo, ricordo che è qualcosa di ancora irrisolto, che per quelle giornate, in cui lo stato di diritto è stato completamente annullato, ci sono ancora dieci persone che rischiano 15 anni di carcere. 
E non ho intenzione di dimenticarmi che ancora adesso, ci si perde nel luogo comune del complotto, che c'è ancora chi, nonostante sia stato messo davanti alla gravità della situazione, continua a linciare i “manifestanti cattivi”.


Ma sì, dai, che cosa dico. Quelli sono brutti, ma brutti davvero.
E sono neri.
E sono cattivi.
E possono anche marcire in galera per espiare i peccati di tutti gli altri.
E noi, possiamo anche dimenticarcene.
E possiamo anche riutilizzare questa nuova etichetta che ora compie dieci anni, BlackBloc, e appiccicarla a tutti quelli che per un momento si incazzano.
Perché colpire le cose, lo sappiamo tutti, è molto più grave che colpire le persone.
E queste non sono parole al vento, è un risultato giuridico. Dei processi conclusi, bloccati o che ancora continuano. Ma è anche un risultato sociale e culturale.
La merce non si tocca.
Le cose non si toccano.
I poteri forti non vanno messi in discussione.
Non dovete scegliere.
Come fate a dimenticarlo? La Val di Susa non è abbastanza sotto gli occhi di tutti? Mica c'è solo il g8 di Genova del 2001! 


Parliamoci chiaro, non ce l'avete una famiglia a cui pensare? Un mutuo, un sogno, un lavoro. Abbassate la testa, abbassate le braccia e siate tranquilli. 
Dimenticate. Dimenticate la vostra storia, i vostri sogni, il vostro desiderio di un mondo migliore.
Non uscite dagli schemi. 
Siete solo teste calde, carne da macello, ma per voi la redenzione è a portata di mano.
Fagocitate i morti, usateli come bandiere, ma dimenticate. Dimenticate il contorno. Ricordate la storia dalle altre voci. Dimenticate la vostra. Alla fine è quello che fanno le persone per bene. Ora addormentate i vostri cervelli così che possiate dormire senza sogni. Senza rabbia. 



Dieci anni e la ferita è così profonda che brucia dentro tutte e tutti noi, anche quando proviamo a distogliere lo sguardo per non ferirci. 
Per non farlo ulteriormente. 
Noi comici spaventati guerrieri, che con tutte le età che abbiamo siamo ancora qui, ma non siamo qui  per portare sulle nostre spalle la salma di un sogno, in un funerale lungo dieci anni.
Siamo ancora qui, perché ricordare ci dà la forza di andare avanti, perché non ci siamo persi nei cunicoli della paura, perché abbiamo un milione di forme di r*esistenza nascoste in ogni angolo dei luoghi che attraversiamo, ma soprattutto, perché siamo ancora bellissimi.





mercoledì 13 luglio 2011

ottoanni


Otto anni sono quasi la vita di mia sorella Adele. Solo un anno in meno. 

La foto l'ho rubata a Ciro, uno dei miei coinquilini, da un suo album che si chiama "Quando mi chiedono, ma perché abiti a Genova?"

Sono inciampata a Genova dieci anni fa. Me lo ricordo ancora. Era il mio primo viaggio oltre i 300km da casa. Prima di quel luglio non avevo mai percorso così tanta strada da sola.
Perché quel g8, quello di cui cade il decennale tra pochi giorni, ha davvero cambiato il corso della mia vita.
Perché scavando nella storia comune, andando a fondo negli ingranaggi collettivi della memoria io trovo la mia piccola, insulsa storia personale.
Quella che a 16 anni ha dato uno scossone così forte alla mia vita che sono ancora qui. E sono felice di essere qui e non altrove.
Otto anni fa tornavo a Genova per stare tre giorni. Dopo i mesi passati qui dopo il g8, dopo non essere stata qui in quei tre giorni, ma altrove con un piede rotto, a telefonare a mia madre il 21 luglio ogni mezz'ora per sapere se stava bene, per dirle che strada evitare, per rassicurarla.
Dopo averle infilato a forza dei limoni nello zaino.
Dopo essere tornata qui il primo di agosto, ed essere rimasta quasi due mesi. A cercare di capire che cosa era successo.

13 luglio 2003. Voglio tornare a Genova per il secondo anniversario. Lavoravo in un festival musicale, mi serviva un passaggio, guardo due amici di Torino e dico loro “Domani andate a Genova a lavorare? Mi date un passaggio?”.
Non ho mai pensato a come sarebbe andata se non me lo avessero dato. Ho sempre e solo pensato al fatto che sono partita e che uno di loro è ancora uno degli amici più belli e importanti che mi porto dietro, che perdo e ritrovo nei mille fili della vita. Costantemente.
So solo che ero partita per stare tre giorni e poi tornare indietro. E che invece non l'ho mai fatto.
So solo che all'epoca Bianca faceva ancora la barista.
So solo che all'epoca Sara, nel bar dove lavorava Bianca mi ha detto di fermarmi, e che lei era avvocato da poco.
So solo che quando mi ha detto di non tornare indietro io non ci ho pensato due volte.
E che Giulia l'ho incontrata un anno esatto dopo, e che ho perso poche persone di quelle che conoscevo all'inizio, ma ne ho incontrate tantissime altre che sono ancora qui. E che sono con me.
So solo che non mi sono mai pentita della scelta che ho fatto.
So solo che qui ci sono tantissimi scorci, tantissimi sorrisi e tantissime persone che quando torno mi fanno urlare il cuore di gioia, della gioia che si prova al ritorno, della gioia di sentirsi a casa.

Perché mi basta passeggiare a Righi e guardare il mare dal monte, o andare a Sori un pomeriggio e tuffarmi dagli scogli per riallinearmi con l'universo.
Perché non mi basta cercare l'equilibrio e la serenità, io voglio proprio essere felice, e in questi otto anni (di cui tre passati a Roma con il desiderio di ritornare), tra una ferita e l'altra io qui sono stata felice.
E credo di poterlo essere ancora.
Nonostante la fatica.
Nonostante i momenti neri.
Nonostante tutto quello che mi manca.

Nonostante le persone che non sto nominando per pudore.
Perché chi mi viene a trovare qui, non ha più bisogno di chiedermi perché vivo a Genova, lo capisce semplicemente passeggiando con me, e vedendola attraverso i miei occhi.

E il mio brindisi a questi otto anni è sacrificare bene le ore di sonno e andarmene al mare stanotte, perché non trovo modo migliore di festeggiare il mio non compleanno...

mercoledì 6 luglio 2011

Voler bene a Milano, per un giorno. Un giorno solo.



Ci sono dei luoghi che ho sempre trovato repellenti, o nella migliore delle ipotesi piuttosto distanti dalla possibilità di essere lo scenario di qualcosa di bello per me.

Milano è uno di questi luoghi.
Per me è sempre stata il male™, una città bastarda e maledetta, capace di farti a pezzi appena le girano i 5 minuti storti.

Milano per me è sempre il posto sbagliato (o quasi sempre).
Diciamo che sono riuscita a rivalutarla solo dopo aver vissuto per tre anni a Roma.
Rivalutarla abbastanza da trovarla un posto civile, ecco, niente di più.

Oggi a Milano ho voluto bene. 
Mi ha regalato qualcosa che in tutti questi anni di lontananza dalla famiglia di origine non avevo mai fatto.

Incontrare mio padre a metà strada tra dove sono nata e dove ho messo radici da una decina di anni a questa parte.

Incontrarsi a metà strada, dopo non essersi visti per mesi.
Incontrarsi a metà strada dopo aver litigato ferocemente.
A metà strada, per guardarlo in quegli occhi che non lasciano dubbi sul fatto che sono sua figlia.

Prima di riprendere il treno entrambi, poco prima di salutarci, temporeggiamo alla Feltrinelli Express di Milano Centrale, perché io voglio regalargli un fumetto per il viaggio e perché adoro regalargli fumetti e indovinare sempre la storia che gli piacerà.
E siamo lì che scartabelliamo negli scaffali.
Io che non trovo quello che volevo regalargli (e che mi prometto di spedirglielo a sorpresa decidendo che comunque la "seconda scelta" va bene), e lui che guarda i fumetti come se sfogliasse piccoli tesori.
E spunta Wonderland tra gli scaffali.
Ed è lì che arriva quel momento, quello per cui io non sono così brava con le parole per trovare quelle giuste per descrivere quanto ero emozionata.
Perché è il momento in cui mio padre prende in mano quel volume, mi guarda sorridendo e mi dice: "C'è solo da essere orgogliosi di trovare questo libro in una Feltrinelli e di poter leggere il tuo nome sul retro di copertina. Aspetta, ora lo metto in modo che la gente lo veda meglio, perché devono comprarlo".
Perché è bastata quella frase di mio padre per azzerare in un secondo la crisi "professionale" di questo periodo.
Qualsiasi cosa accada, io in questo momento, sono una delle figlie più felici della terra.

(L'unico rammarico è non avere una foto di oggi di mio padre, ma di dover pescare una foto rubata l'ultima volta che l'avevo visto lo scorso inverno...)

martedì 5 luglio 2011

A porte chiuse



Non era ancora successo.
In genere sei tu a rincorrermi al binario con un sacchetto di pastarelle che non ho fatto in tempo a comprare, o a prepararmi il cestino con il cibo per il viaggio. A darmi il libro da leggere per le ore che mi aspettano. A lasciare che il treno parta, a girare i tacchi e uscire dalla stazione.
Io non ero ancora rimasta sul marciapiedi con la porta del treno che si chiude, con il mio Estathè ancora in mano, mezzo pieno, con la corsa per farti prendere quel treno che mi sono impegnata troppo poco per fartelo perdere.
Ma ci ho provato eh. Allungando la strada, cercando di confonderti con i percorsi. Ci ho provato. Ma sei riuscita a salire. Un secondo prima che si chiudesse la porta.

Cazzo. Ce l'hai fatta. Tu e quell'altro lì a cui devo un paio di favori. Sì, già che ci sono me li segno.

Vabbé, credo che fare quella che se ne va verso il suo divenire, che si siede quando il treno parte, appoggia la valigia e usa il viaggio per pensare sia davvero molto molto più facile. Cioè ogni volta che l'ho fatto per me era un sacco più facile.

Insomma uscire da quella stazione e in un attimo rendermi conto che ero così emozionata di averti qui, nelle strade di questa città che mi ha rapita, da non essere riuscita a portarti in ogni angolo che ti avrebbe fatto innamorare di lei.
Che dovevo farti vedere ancora troppe cose, che gli ultimi metri di strada verso la stazione li ho fatti dicendoti, guarda qui, guarda lì, lasciando appesi mille discorsi che secondo me sono rimasti incastrati tra le porte di quel treno.

Maledizione. Perché il tempo va alla velocità che vuole lui?

Perché mentre me ne andavo dalla stazione di Principe la vecchia in via Balbi suonava con la fisarmonica una canzone strappalacrime?
Perché si è alzato il vento, come in un film melenso e tutto è diventato improvvisamente silenzioso, come stamattina in porto quando abbiamo pranzato sulle chiatte sotto il sole, rinchiuso in una bolla che mi ha lasciata frastornata?

Se trovo lo stronzo di regista che si è immaginato questa scena giuro che si pentirà di essere nato.

E me ne sono tornata a casa. Una doccia veloce. Due parole vomitate qui, mentre io sono rallentata e il mondo intorno a me si muove velocissimo. E io lo guardo, sperando che tra tutti questi frammenti veloci, prima o poi, tu mi venga a sbattere di nuovo addosso, per abbracciarmi, per trovare le parole giuste, per farmi incontrare quelle persone che per te sono importanti e per farlo io con te, per raccontarmi delle tue nuove vite, per giocare con mille parrucche, per portarti appresso quell'orso che biascica prima del secondo caffè, proprio come me, ma che al contrario di me parla poco e dice troppo spesso la cosa giusta al momento giusto.
Ma, soprattutto, per ricordarmi che in troppi non riuscirebbero a capire i nostri cuori che contengono moltitudini.